“Alle origini del conflitto in Siria”
In Siria si rispecchiano i problemi fondamentali della nostra epoca
Di seguito una stralcio di un lungo articolo/analisi di Mattia Salvia, managing editor di Iconografie., comparso sulla newsletter Tempolinea. Il testo integrale è sul sito iconografie.it
La rimozione dei conflitti
La coscienza collettiva occidentale, oggi, è caratterizzata dal rimosso. Tutti i grandi eventi degli ultimi anni, alcuni dei quali ancora in corso, sono presto o tardi caduti nel dimenticatoio: dalla pandemia alla guerra in Ucraina alla crisi climatica. Sono rimozioni che servono a nasconderne il portato traumatico e il fatto che, anche dopo essere tecnicamente “finiti”, continuano ad avere conseguenze sulla nostra realtà. La pandemia, per esempio, è teoricamente finita, ma l’impatto che ha avuto – in termini non solo sanitari, ma anche psicologici – è ancora ben presente. La guerra in Ucraina è stata sempre più marginale nel ciclo delle notizie, ma è difficile trovare qualcuno oggi che non viva con la sensazione costante che il nostro mondo abbia una spada di Damocle che gli pende sulla testa.
Ebbene, la guerra in Siria è stato il primo di questi rimossi. Anzi, il fatto stesso che tutti si fossero dimenticati della guerra in Siria – non solo del fatto che fosse ancora in corso ma della sua stessa esistenza come evento storico – deriva dal fatto che tutti i fenomeni morbosi della nostra epoca, tutte le sue questioni aperte, tutti gli aspetti che più ci terrorizzano, sono apparsi per la prima volta proprio in Siria. E la guerra siriana arriva dunque come ritorno in superficie di questo rimosso.
La Siria e i problemi fondamentali della nostra epoca
Pensiamo a quali sono i problemi fondamentali della nostra epoca, quelli che non ci fanno dormire di notte. C’è il cambiamento climatico. C’è la “guerra mondiale a pezzi” come l’ha definita papa Francesco, ovvero la continua esplosione di conflitti locali nell’ambito di una nuova competizione inter-imperialista per i mercati. C’è la crisi del capitalismo liberale, che finisce da un lato in proteste di massa incapaci di trasformarsi in movimenti rivoluzionari, come quelle che abbiamo visto nell’ultimo decennio e dall’altro in autoritarismi nazional-populisti. A prima vista sono tutte cose che sembrano c’entrare poco con la guerra civile siriana, un conflitto degli anni Dieci, che con i ritmi del mondo contemporaneo è come dire del secolo scorso. Eppure a guardare meglio si scopre che tutte queste questioni si sono manifestate per la prima volta sul terreno siriano ormai più di dieci anni fa.
Il cambiamento climatico all’origine del conflitto siriano
È ormai cosa nota che il conflitto siriano sia stato scatenato anche dal cambiamento climatico. Prima dello scoppio delle proteste nel 2011, la Siria aveva attraversato tre anni di siccità nel 2007-2010, la peggiore di sempre, che aveva esasperato la pressione sulle risorse agricole e idriche e provocato una migrazione interna di un milione e mezzo di persone dalle aree agricole alle periferie delle grandi città. Ovviamente non si può trovare una causa unica ad un conflitto tanto complesso, il cambiamento climatico è semplicemente stato una delle prime tessere del domino. Quando l’ondata di scontento formulata in termini liberal-democratici (libertà, democrazia, dignità) cominciata in Tunisia nel dicembre 2010 è arrivata per contagio alla Siria, ha trovato terreno fertile anche tra quelle masse di migranti impoveriti che affollavano le periferie – alcune delle quali sarebbero diventate roccaforti delle milizie ribelli.
Le rivolte senza rivoluzione, nelle primavere arabe e in occidente.
Qui ci ricolleghiamo al secondo incubo dei nostri tempi, le rivolte senza rivoluzione. La rivolta siriana è stata l’esempio più radicale di tale tendenza: come in tutti gli altri contesti delle cosiddette Primavere arabe, il movimento di protesta si è posto in modo insufficiente (o non ha proprio affrontato) le questioni del potere e dell’organizzazione, finendo per essere svuotato dall’interno. È lo stesso fenomeno che abbiamo visto anche in Occidente, per cui dopo il fallimento dell’ascesa di sinistra di dieci anni fa – i vari Occupy, Indignados, Podemos, Syriza –, la radicalizzazione identitaria ha finito per sostituire la radicalità politica. In Siria la forma che questo processo ha preso è stata quella del jihadismo: quando la rivolta siriana si è militarizzata le organizzazioni orizzontali dei ribelli liberali si sono dissolte sotto la prova di forza repressiva del governo. Questo vuoto è stato riempito dalla radicalizzazione identitaria.
“Amici e Nemici dell’Occidente”
La Siria è stata il primo terreno in cui le contrapposizioni politiche hanno assunto status ontologico. Sulla decisione tra “Assad e i jihadisti” si è polarizzata tutta la società, o meglio è emersa una polarizzazione già presente, che negli anni successivi si sarebbe ripresentata ogni volta che un tema riguardante la collettività si affermava come urgente nel dibattito pubblico: l’Europa (europeisti vs antieuropeisti), il populismo (populisti vs competenti), il Covid (no-vax vs sì-vax), l’Ucraina (pro-Putin vs pro-Ucraina), Gaza (pro-Palestina vs pro-Israele). Oggi vediamo come tutte queste polarizzazioni stiano cominciando a ricadere delimitando due campi contrapposti, riassumibili nella formula degli amici e dei nemici dell’Occidente.
Se questa ricaduta è stata possibile è per via della dimensione internazionale del conflitto siriano; non solo una guerra civile, ma un campo di battaglia in cui varie forze si sono affrontate per imporre la propria supremazia. È stato il primo luogo in cui è andato in scena militarmente quello scontro inter-imperialista che oggi vediamo ovunque e di fronte al quale le nostre società ci chiedono di compattare i ranghi. La Siria sta con l’Iran, con Hezbollah, con Putin, con la Cina e coi palestinesi, quindi i ribelli stanno con Israele, con l’Ucraina, con gli Stati Uniti e con l’Occidente. È una narrazione propagandistica, ovviamente, ma la guerra civile siriana è stato il primo terreno su cui è stata sperimentata, perché in Siria effettivamente c’erano sul campo tutti questi attori, dalle milizie filo-iraniane agli uiguri oppressi dalla Cina che combattevano contro Assad.
Potere militare e potere politico
Dopo aver riconquistato Aleppo pochi giorni fa, i ribelli siriani hanno cominciato a rilasciare una serie di dichiarazioni volte a tranquillizzare la popolazione: tornate alla normalità, state tranquilli. Inoltre hanno cominciato ad affermare la loro volontà di proteggere le minoranze, di valorizzare il pluralismo della società siriana. Si sono rivolti ai curdi e ai cristiani, ad esempio, per dirgli non vi preoccupate, anche voi fate parte della Siria che vogliamo. Hanno cominciato ad adottare, insomma, una retorica che sembra simile a quella della rivoluzione del 2011-2012. Sicuramente non si tratta di parole sincere, come non lo erano quelle dei talebani quando promettevano di istituire un “governo inclusivo” all’indomani della presa di Kabul. Sicuramente i vertici di HTS – un gruppo armato che nemmeno 10 anni fa era affiliato ad al-Qaeda – non ci credono e appena possibile si rimangeranno tali promesse. Ma il fatto stesso che oggi le si faccia è indicativo che una lezione è stata appresa: così come il movimento di protesta del 2011 non poteva avere successo militarmente senza affidarsi all’aiuto delle truppe jihadiste, l’unica forza combattente in grado di tenere testa all’esercito assadista, quelle stesse truppe jihadiste, un decennio più tardi, hanno capito di non poter aver successo politicamente senza affidarsi all’aiuto ideologico di quello che resta del movimento di protesta del 2011. C’è voluto un decennio ma la dialettica della storia ha fatto il suo lavoro. Si tratta di un presagio di cui tenere conto.
Foto di Salah Darwish. Damasco, Siria, bambino profugo dalle zone di guerra.
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