Il Racconto della Domenica: quando a Napoli gettarono a mare San Gennaro

Redazione da Redazione7 min. tempo di lettura

Da un racconto di Alexandre Dumas

 

Alexandre Dumas visitò Napoli diverse volte nei primi decenni dell’800 e vi soggiornò a lungo, anche se in incognito perché non gradito dai Borboni per le sue simpatie repubblicane. Di queste sue presenze ha dato conto in un libro, “Il Corricolo”, pubblicato in Italia dagli editori Ricciardi prima  e Colonnese poi ed ora fuori catalogo.
Uno dei racconti de “Il Corricolo” è quello che si intitola
Sant’Antonio usurpatore, di cui di seguito trovate la traduzione di ampi stralci. 
La storia è ambientata nella Napoli del 1799, quando i francesi guidati da Napoleone dominano la città e la loro presenza non è affatto gradita al proletariato napoletano.
In questo scenario si colloca il racconto che parte dal giorno dell’atteso miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro. Championnet, il generale comandante delle truppe francesi, presente alla cerimonia, dà disposizioni al suo aiutante di campo affinché faccia pressioni sul prete officiante per far sì che il miracolo avvenga. Vuole, in tal modo, ottenere il segno che San Gennaro dà il suo consenso alla presenza francese.

Il canonico prese la fiala racchiudente il sangue perfettamente coagulato, la levò in aria perché nessuno dubitasse dello stato in cui era; poi cominciò a farla baciare in giro.Quando giunse innanzi all’aiutante di campo, questi, pur baciando l’ampolla, gli prese la mano. Il canonico fece un movimento.
«Una parola, padre» disse il giovane ufficiale.
«Che volete da me?» chiese il prete.
«Voglio dirvi, da parte del generale in capo, che se fra dieci minuti il miracolo non è fatto, fra un quarto d’ora sarete fucilato.»
Il canonico lasciò cadere l’ampolla, che il giovane aiutante di campo afferrò fortunatamente prima che toccasse il suolo, e che gli riconsegnò subito con i segni della più profonda devozione; poi si alzò e tornò a prendere il suo posto presso il generale.
«Ebbene?» disse Championnet.
«Ebbene,» disse l’aiutante di campo «state tranquillo, ge­nerale: fra dieci minuti il miracolo sarà fatto.»
L’aiutante di campo aveva detto il vero: soltanto s’era sba­gliato di cinque minuti. Dopo cinque minuti il canonico alzò l’ampolla gridando:
«Il miracolo è fatto!»
Il sangue era in piena liquefazione.

Il popolo, che invece attendeva da San Gennaro un inequivocabile segno di condanna dell’occupazione da parte degli odiati francesi, restò profondamente deluso e manifestò vistosamente il suo disappunto.
San Gennaro fu considerato un vero e proprio traditore, venduto alla causa dei francesi.

Si corse alla cappella del Tesoro, preven­tivamente saccheggiato; poi si prese la statua del santo, le si attaccò una corda al collo, la si trascinò sul molo e fu get­tata in mare
Qualche voce s’elevò fra i pescatori contro quella esecu­zione, ma quelle proteste furono subito coperte dalle vociferazioni della plebaglia, che gridava:
«Abbasso san Gennaro! San Gennaro a mare!»
San Gennaro, dunque, subì una seconda volta il martirio e fu gettato nelle onde, fu sepolto in mare.
La città di Napoli si trovò senza patrono e, abituata com’era a una pro­tezione miracolosa, sentì nel modo più deplorevole l’isolamento in cui si trovava.
Il suo primo moto naturale fu di far ricorso a uno dei pa­troni secondari e di trasmettergli il ruolo di san Gennaro.
Sventuratamente non era cosa facile a farsi; i santi supe­riori erano occupati altrove: san Pietro aveva Roma, san Paolo aveva Londra, san Francesco aveva Assisi, san Carlo Borromeo aveva Arona; ognuno, insomma, aveva la propria città che aveva sempre protetta.

Si avviò, dunque, un’accesa disputa tra i napoletani per individuare il sostituto di San Gennaro.

Si ordivano ogni sorta d’intrighi; ognuno presentava il suo santo, ne esagerava i meriti, ne raddoppiava le qualità, s’impegnava per lui e in suo nome, rispondeva della sua buona volontà; persino san Gaetano ebbe i suoi ze­latori.
Si stabilì di tenere un conclave in cui i meriti dei preten­denti sarebbero stati esaminati, e da cui sarebbe uscito il più degno e i voti fossero real­mente liberi si decretò che lo scrutinio sarebbe stato segreto.
Al terzo giro di scrutinio, sant’Antonio fu eletto.
Ciò che aveva sopratutto operato in favore di sant’Antonio, è che egli è patrono del fuoco.
Ma Napoli non aveva pensato a una cosa: che c’è fuoco e fuoco, come c’è fascina e fascina. Sant’Antonio era patrono del fuoco causato per accidente, per inavvertenza, per sbada­taggine; era sovrano contro ogni incendio che avesse per principio una causa umana; ma sant’Antonio nulla poteva contro il fuoco del cielo né contro il fuoco della terra, san­t’Antonio era impotente contro la folgore e contro la lava, contro gli uragani e contro i vulcani. Sant’Antonio non era dun­que per Napoli un patrono molto superiore a san Gaetano, ma fu nondimeno proclamato patrono di Napoli tra la generale allegrezza.
Ma sant’Antonio non faceva i conti col Vesuvio.
Passarono sei mesi senza che alcun avvenimento venisse a menomare la popolarità del nuovo patrono; anzi nella città si erano manifestati due o tre incendi, miracolosamente repressi alla sola presenza del reliquiario del santo: di modo che non solo si cominciava a dimenticare san Gennaro, ma vi erano persino dei cortigiani del potentato che proponevano di buttar giù la statua dell’ex-patrono di Napoli che, certo per dimenticanza, s’era lasciata in piedi sul ponte della Mad­dalena.
Per fortuna l’esasperazione s’era calmata, e quella proposta di vendetta retroattiva non ebbe alcun risultato.
Tutto pareva, dunque, che andasse per il meglio nel miglior modo possibile, quando una bella mattina si scorse che il fumo del Vesuvio spesseggiava sensibilmente e saliva al cielo con una violenza e una rapidità straordinaria. Nello stesso tempo cominciarono a farsi sentire boati sotterranei; i cani ululavano lamentosamente, e numerosi stormi di uccelli spa­ventati volteggiavano per l’aria. Dal canto suo, il mare presentava fenomeni particolari egual­mente terrificanti; dall’azzurro indaco che gli è abituale sotto il bel cielo di Napoli, era passato a un colore cinerognolo che gli toglieva ogni trasparenza; e, benché calmo in appa­renza, benché nessun vento lo agitasse, grosse onde isolate salivano dal fondo, ribollendo, e venivano a rompersi alla superficie spandendo un forte odore di zolfo. Quei presagi erano troppo noti perché si dubitasse un solo istante di ciò che annunciavano: una eruzione del Ve­suvio era imminente.
Finalmente, verso le due del mattino, si sentì una detonazione terribile: la terra oscillò, il mare balzò e la cima del monte, fendendosi come una melagrana troppo ma­tura, aperse il passaggio a un fiume di lava ardente che avanzò direttamente verso Napoli. La lava dunque procedeva verso la città.
Si corse alla cappella del Tesoro, si trasse fuori la statua di sant’Antonio, sei canonici la presero sulle loro spalle e, seguiti da una parte della popolazione, s’avanzarono verso il punto dove il pericolo minacciava.
I canonici portarono il santo il più vicino possibile alla lava e lì intona­rono il Dies irae, dies illa. Ma, nonostante la presenza del santo, nonostante i cori dei canonici, la lava continuò ad avan­zare. I canonici resistettero finché fu possibile, ma alla fine sant’Antonio fu costretto a indietreggiare.
Da quel momento si capì che tutto era perduto. Se il santo protettore di Napoli non aveva potuto fare nulla per Napoli, chi sarebbe stato abbastanza potente da salvarla? Napoli, che rischiava di essere sepolta come Ercolano e di scomparire come Pompei. Mancavano ancora due ore e poi si sarebbe detto: “Qui fu Napoli!”.La lava procedeva sempre: aveva raggiunto da un lato la strada di Portici e cominciava a spandersi nel mare; dall’altro puntava diritto sulla chiesa di Santa Maria delle Grazie e stava per raggiungere il ponte della Maddalena.
A un tratto la statua di marmo di san Gennaro dimenticata sul ponte della Maddalena che stava sulla spalletta del ponte con le mani giunte, staccò la destra dalla sinistra e con gesto supremo e imperioso tese il braccio marmoreo verso il fiume di fiamme. Immediatamente il vul­cano si chiuse; immediatamente il mare si placò e la lava si fermò improvvisamente. Napoli era salva! Salvata dal suo antico patrono, da colui che essa aveva urlato, vilipeso, detronizzato, buttato a mare, e che si vendicava di tutte quelle umiliazioni, di tutti quegli insulti, di tutte quelle ingiurie.
Inutile chiedere se la reazione fu rapida: nello stesso mo­mento i gridi di «Viva san Gennaro!» risuonarono da un capo all’altro della città. Si corse nel punto dove s’era buttata a mare la statua di san Gennaro: fu circondato da reti e si chiamarono i più abili tuffatori per individuare il punto in cui giaceva il prezioso simulacro. Ma un vecchio pescatore condusse quella folla alla sua capanna; poi, entratovi solo, ne uscì un momento dopo con la statua del santo fra le braccia.
La stessa sera in cui era stata precipitata dall’alto del molo, egli l’aveva ritirata dal mare e preziosamente portata a casa sua.
La statua fu subito trasportata nel tempio di santa Chiara e l’indomani reintegrata con pompa magna nella cappella del Tesoro.
Quanto al povero sant’Antonio, fu degradato da tutti i titoli ed onori e, a partire da quel momento, classificato nello spi­rito dei Napoletani una tacca al disotto di san Gaetano! Da quel giorno la devozione a san Gennaro, lungi dal su­bire qualche nuovo attentato, è andata sempre crescendo.

Foto: Paola Magni su Flickr. “Napoli, il sangue è vivo”. Il cardinale Sepe durante il rito dello scioglimento del sangue. Napoli, settembre 2009.

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